martedì 22 agosto 2017

Shanghai: rimembranze di una megalopoli




Lo skyline del Bund al sopraggiungere delle tenebre. Chissà il conto della bolletta della luce


C’era una volta la Cina imperiale. Una manciata di dinastie fecero grande questa vasta nazione: Song, Yuan, Ming e Qing. Tuttavia, ancor prima dell’avvento dell’epoca imperiale, la preistoria cinese rappresenta forse la testimonianza più antica di arte, filosofia, politica. Inventarono una parola, più un modo di vedere ogni aspetto del mondo, la definirei così, che da allora si sarebbe presa la briga di influenzare sterminate miriadi di miliardi di persone tra Cina e l’occidente. Sì, pure l’avanzato e progressista occidente. Quel concetto di cui parlo è il “Tao”, che significa via, sentiero. Un concetto di difficile definizione, il Tao. Una forza che scorre in perenne movimento attraverso ogni singolo atomo dell’Universo. Forse l’universo stesso. Un inesauribile divenire. Ed ecco che uomini e donne iniziarono a camminare lungo il Tao dell’Amore, uomini annoiati lungo il Tao della filosofia diedero vita a correnti di pensiero, uomini abili con mani e pensiero furono i primi a percorrere il Tao della scienza partorendo la scienza applicata e la medicina, mentre altri dimostrarono eccellenti doti nello spennellare la china su pergamene di riso e bambù. Così nacque invece il Tao delle parole ordinate e melodiose. Ma ritorniamo alla Cina imperiale: ad un certo punto, parlo del 10 Ottobre 1911, le moderne ed organizzate milizie del Kuomintag, sotto un’influenza taoista e rivoluzionaria di Sun Yat, decisero che la dinastia Qing non avesse più nulla di valido da offrire. Volevano una Repubblica, quelli lì. Ed è così che nel 1912 la famiglia reale dovette riempire i propri fagotti da viaggio ed abbandonare la Città Proibita di Beijing. Nel 1912 nacque la Repubblica di Cina. Non fecero in tempo a finire i festeggiamenti per la neonata Repubblica che negli anni ’40 del XX secolo, dopo aver subito l’invasione giapponese della Seconda guerra mondiale, la Cina attraversò un altro periodo di profonde e sanguinolente rivolte interne. Mao, che di felino non ebbe solo il nome, nel 1949 riuscì a sua volta a spedire con raccomandata e ricevuta di NON-ritorno Chang Kai Shek sull’isola di Taiwan. Nacque così, sotto il segno del niù – Bue nel nostro linguaggio –  la Repubblica Popolare Cinese. Miao – d’ora in poi lo chiameremo così – improntò la nascente nazione sul Tao marxista-leninista. Tuttavia, negli anni ’60, il Partito Comunista Cinese subiva le prime radicali trasformazioni interne. Si stava imborghesendo. A Miao, fervente contadino dal cuore scarlatto, non andò bene. L’anno del Cavallo 1966 segna l’inizio della grande rivoluzione culturale proletaria, wén huà dà gé ming. Sicuramente uno dei più grandi lavaggi del cervello della storia. Così mi piace definire la rivoluzione culturale. Una rivoluzione che lasciò inebetiti ed affamati centinaia di milioni di persone, quando non le lasciò senza respiro. Ed è così che migliaia di anni di sentieri e vie andarono bruciate o poste su pochi polverosi scaffali, nascosti in buie cantine. Quando le vibrisse del paffutello Miao cedettero il passo, la RPC iniziò un altro radicale cambiamento. Come ci insegna il cinema, grazie al moderno Marco Polo americano Forrest Gump, la Cina iniziò ad aprire le frontiere allo straniero. In capo a qualche anno, il basso costo della manodopera avrebbe portato la Cina dove ora è: in cima alla piramide delle potenze economiche mondiali. Povero Miao, mi immagino la sua faccia se oggi camminasse per le strade di Shanghai e leggesse “American Flat Chai Latte”, o “Nike outlet”, o peggio ancora “Shanghai limited Company for International Business”. Un mancamento, un infarto. Ecco cosa succederebbe al condottiero contadino se vedesse quanti occhi tondi su visi pallidi, occhi quadrati su visi bruni, quante capigliature color paglia e quanto inchiostro sulla pelle oggi circolino per le sino-strade. 

Shanghai, per la quale l’occidente ha dovuto coniare un nuovo termine per definirla: megalopoli. Shanghai, un tripudio di colori ed odori che mantiene viva la tradizione atarassica cinese. Shanghai, la perla della multiculturalità orientale. Shanghai, dove la prostituzione non è uno dei principali motivi per cui la città pullula di stranieri. Shanghai, convivenza tra culture diametralmente opposte. Shanghai, uno stamburare di ritmi diversi. Shanghai, tecnologia e povertà. Shanghai la costosa. Shanghai, la terra delle opportunità per tutti. Shanghai, davvero sei la capitale economica di uno stato comunista? Shanghai, mi iscrivo al partito – anzi sono già iscritto – ed il sindaco lo decido io senza votazione alcuna. Shanghai, cittadini di Shanghai: smettetela di procreare come conigli perché la popolazione mondiale conta un numero troppo elevato di persone per le risorse che ci siamo lasciati. Shanghai, c’erano un italiano, una rumena, un russo, due olandesi, una taiwanese, e poi altri due italiani, un americano di origini serbe ed un messicano naturalizzato americano, un giapponese sotto mentite spoglie, tanti cinesi, una francese, ancora un paio di cinesi. Shanghai, dove accanto al gigante negozio della Nike v’è una picciola stireria il cui proprietario riposa su una sedia pieghevole in mezzo al marciapiede. Shanghai, centri massaggi seri e meno seri. Shanghai, dove ho visto più cani in un giorno che in quattro mesi tra Shenzhen e Xian. Shanghai, tra accettazione incondizionata ed espressione della propria essenza. Shanghai, sul Fiume Giallo. Shanghai, dovresti rivedere il nome del fiume Giallo perché a me sembra più marron scuro con sfumature color petrolio. Shanghai, qual è il tuo problema con chi non vuole mangiare carne né pesce? Shanghai, i guardiani del traffico fischiettano senza dare una vera direzione alle vibrazioni che liberano da quell’oggettino metallico. Shanghai, dove tutte le belle donne cinesi si sono riunite non lasciando traccia di femminilità ed incanto altrove nel paese. Shanghai, giusto non introdurre reti d’interazione sociali estere ma mettiti il cuore in pace perché con una VPN chiunque ti può fregare facilmente. Shanghai, non ho mai visto un quotidiano. Shanghai, ti racconto una barzelletta: c’erano un italiano, una rumena, un russo, due olandesi, una taiwanese, e poi altri due italiani, un americano di origini serbe ed un messicano naturalizzato americano, un giapponese sotto mentite spoglie, tanti cinesi, una francese, ancora un paio di cinesi, gli amici della francese, il fratello della rumena, un parrucchiere italiano, una cinese tinta color paglia, un anziano francese che dalle donne cinesi non ottiene più nulla, una tibetana che non è cinese, tanti altri cinesi che credono che tibetani, taiwanesi e gli abitanti di Porto Profumato siano cinesi come loro. Shanghai, mi piacerebbe chiamare per nome tutti i cittadini ma proprio non mi è possibile farlo. Shanghai, deve essere assai dura d’estate, con 40°C, sopravvivere senza montagne, laghi, mari o pozze dove tuffarsi per trovare riparo dall’asfissiante calura. Shanghai, che mi ispiri improbabili rime. Shanghai, gloriosi coloro che provarono a risalire le tre gole dello Yangtze. Shanghai e la cannoniera Carlotto, cimelio di un’Italia che mai diventò potenza coloniale.  Shanghai, Marco Polo e la via della seta. Shanghai, che mai riuscisti a diventare capitale: prima Nanchino, ora Pechino e domani chissà. Shanghai, che ci fanno lì Galeazzo Ciano ed Edda Mussolini?  Shanghai, il successo della popstar Emma Re: “Nemo propheta in patria”.  Shanghai, che significhi “sul mare” ma che prima di riuscire a vederlo si fa prima a versare il proprio stipendio direttamente al tassista di turno. 

Shanghai, lupo che osserva ti saluta.

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