Era
un Mercoledì mattino caldo ed afoso. A lavoro, internet fuori uso e calma
piatta dal fronte asiatico, dal fronte europeo e dalla lontana Australia.
“Sai
che ti dico? Vado a casa, carico la bicicletta e provo ad andare a realizzare
un piccolo sogno.” Da anni sognavo il Cervino e solamente in fotografia, solo
in documentari e, in lontananza, dall’aereo ebbi l’opportunità di farne
conoscenza indiretta. Detto, fatto.
L’idea
di fare un viaggio completamente ecosostenibile evitando l’auto e prendendo il
treno scemò nel momento in cui realizzai che per arrivare ad Ivrea, avrei
impiegato più di 4 ore arrivando ormai all’ora di cena.
Rubata
l’auto della madre, a gas, - non me ne volere, mammà, se stai leggendo – in men
che non si dica la mia bussola indicò: direzione regione autonoma della Valle d’Aosta;
direzione Ovest-NordOvest.
La
mia mini-avventura iniziò a Pont-Saint-Martin – scopriremo, poco alla volta, di
come in Valle d’Aosta piacciano i trattini all’interno dei nomi – . Il giro non
è mica stato pianificato. Poca cognizione circa distanze e soprattutto circa i dislivelli.
Conoscendola come una valle ospitante tutte le montagne più alte non solo della
penisola italiana ma di tutta l’Europa, mi aspettavo fosse una valle già in
quota. Che ne so: “Point-Saint-Martin, primo paese della Valle d’Aosta, sita a 1000mslm,
valle d’accesso alle meraviglie più nascoste di un ambiente d’alta, che dico
alta, altissima montagna [...]”. Mi aspettavo questo annuncio da un altoparlante
con voce stile Drive In degli anni ’50.
Tra
Pont-Saint-Martin (pronunciato Pont trattino Saint trattino Martin) e Saint-Vincent
(pronunciato Saint trattino Vincent) strettoie, gallerie, piane e falsipiani,
strappi in salita, ponti sulla Dora Baltea, rocce scoscese e pericolati sopra
la mia testa. “Se cadesse un sasso, qui il caschetto servirebbe a ben poco”, pensavo tra
me e me. E via sotto il Forte di Bard (foto), via per l’allestimento della
sagra del Lardo di Arnad – inizialmente convinto fosse una persona, poi ho
incontrato un masso con inciso: “Bienvenue,
Arnad!” – e poi nel mezzo dei castelli di Issogne e di Verrès. Tante meraviglie
italiane da far perdere l’orientamento.
Orientamento
che non perdo, o perdo ma poi recupero. Dopo poco più d’un paio di ore, mi
ritrovai con la necessità di un tempestivo intervento con defibrillatore: Saint-Vincent,
500 metri sopra il livello del mare; Breuil-Cervinia 28km!
Come
solo 500? Mi sarei aspettato un 1000mslm, metro più metro meno. E come 28km a
Cervinia-Breuil?Con mappa e dito a mo’ di goniometro, faccio un rapido calcolo
del dislivello e del tempo necessario a raggiungere la località prossima all’imperatore
o imperatrice delle Alpi, mio cugino il Cervino. Troppo tempo essendo ormai a
ridosso dell’orario di cena. Così decisi. “Finché c’è luce c’è speranza!” o “La
luce mi condurrà finché potrà, o Cervino”. Ed eccomi sopraggiungere, ormai alle
ultime fasi del crepuscolo, in località Antey-Saint-André (pronunciato Antey
trattino Saint trattino André). Decido di non fare complimento al mio omonimo
e, salutato il giorno, e dopo aver quasi esaurito le scorte di cibo fresco, mi
corico dietro una piazzola erbosa della SR46 ed al sicuro da eventuali ondate
di piena dell’effervescente torrente Marmore, che mi ha tenuto sonora compagnia
per tutta la notte. Clima fresco ma tutto sommato mite per essere in montagna a
poco più di 1000mslm.
Alle
ore 05:00 il sacco a pelo ed il sacco da bivacco sono nuovamente dentro i loro compression and dry bag. Colazione con
la ormai canonica pizza ai peperoni ed altre verdure grigliate, ricomincio a
salire lemme lemme verso Breuil-Cervinia. Non ho capito perché si chiami anche Breuil, sarà il nome francese per
Cervinia? Non ho avuto memoria per chiederlo quando mi si è presentata l’occasione.
In capo a 20 minuti, superata una doppia curva, ecco il Cervino. In tutta la
sua maestosa possenza – in Italia ha lineamenti più poderosi rispetto alla
prospettiva svizzera – se ne sta tacito a godere del silenzio mattutino. Non
s’è ancora messo il cappello. Il sogno è realizzato, lo vedo. La pelle si fà d’oca,
l’animo forte e rinfrancato. Penso agli alpinisti che sono già quasi in vetta.
Penso alla pericolosità dell’ambiente alpino ed alla cura che va prestata ad
ogni singolo pensiero e ad ogni singola azione in alta quota. Penso al recente
fallimento, sebbene di fallimento non si tratti, bensì di testa sulle spalle,
sull’Adamello. Penso a quanto vorrei essere là, faccio programmi: nel 2018 o
massimo 2019 sarò là sopra pure io, penso. Penso a Jean-Antoine, all’instancabile
amante del Cervino Jean-Antoine Carrel ed alle sue numerosissime ascese. Penso
che i miei amici e la mia famiglia mi avrebbe preferito amante dei videogiochi
e dei fumetti piuttosto che di temerarie avventure comportanti rischi di tal
genere. E che volete che sia, per ora non v’è da preoccuparsi.
E
sulle note dei balcanici Dubioza Kolektiv in testa, e con, sempre in testa, le
magiche parole dell’amico Terzani e della bella recente scoperta Gunter Grass,
arrivo in Cervinia. Al bar-panetteria Birdy Bakery godo della cortese
attenzione della bella cameriera sebbene poco sorridente. Mi voglio trattare
bene, e mi concedo una bella fetta di torta al cioccolato con cuore morbido e
un pezzo di focaccia ai pomodorini. Cosa c’azzeccassero l’uno con l’altro è una
questione di cui non mi voglio occupare. Molto buona e saporita la focaccia.
Riparto di buon cuore e con passo lento ma violento imbocco e percorro la sterrata, a
tratti ripida, che conduce fino al rifugio Oriondè, già rifugio Duca degli Abruzzi.
Non mi piace chiamarlo Oriondè, il nuovo non mi si addice ed il nome mi ricorda
la Repubblica di Salò. Lungo la strada, immacolata mattina dai colori celesti
ed ancora incontaminati, numerose marmotte che si danno segnali di avvertimento
e si inoltrano, lontani dalla strada, in mezzo irte e pratose coste sotto la
Vedretta di Cherillon. Le marmotte, il cui richiamo potrei ormai riconoscere
nel mezzo di altri cento diversi tipi di richiami animaleschi, come quello dei
fenicotteri rosa, diventano così mie amiche e simili. E da quando siamo
diventati amici, capisco che le marmotte si mettono in guarda da eventuali
aquile reali presenti nelle lontane vicinanze. Vacche al pascolo, bianche e
brune. Qui in Val d’Aosta, anche le vacche hanno le corna. Un po’ di sana
uguaglianza di genere! Una magnifica cascatella, una delle tante incontrate in
giornata, con torrentello da guadare, uno dei numerosissimi della giornata, e
sono il primo arrivo al Duca degli Abruzzi.
Andrea all'attacco della carrareccia in direzione Duca degli AbBruzzi |
Cascatella con dietro il timido Cervino |
Le Grandes Murailles con le rimanenze del Ghiacciaio di Mont Tabel |
Cervino e Smilza semicarica |
Ultimi metri per il Duca degli AbBruzzi, con Plateau Rosa laddietro |
Ammiro
il panorama a 320° gradi, per i restanti 40° provo del disgusto a causa dell’ammasso
di calcestruzzo a fondovalle. Quando il capitale finirà di essere l’unico dio
venerato da tutti?
Calcestruzzo e Spa in alta montagna. Sono confuso |
Al
Duca degli AbBruzzi faccio una breve pausa. Mi metto uno smanicato per
contrasto ai venti freddi d’alta quota e inizio la traversata con bicicletta
rigida – parlo di Smilza – dell’ormai ex ghiacciaio del Cervino. Sul saliscendi
non incontro alcun camminatore. Il tracciato, sebbene non pensato per le
biciclette e men che meno non ammortizzate, presenta alcuni tratti che mi
obbligano a caricarmi la bicicletta in mano. A causa delle piogge dei giorni
prima, e dell’inarrestabile discioglimento dei ghiacciai, devo affrontare due
guadi, uno problematico ed uno bisbetico. Il primo, in prossimità del passaggio
del sentiero è per le mie scarpe con attacchi un arma a doppio taglio. Passare
su rocce leggermente affioranti dal corso d’acqua e sicuramente scivolose che il peso della bicicletta a sbilanciarmi è
un sicuro fallimento. Ho deciso così di tagliare la testa al toro e di entrare
direttamente dentro l’acqua cercando stabilità sul fondo. L’acqua passa una
manciata di centimetri sotto il ginocchio, ma i passi sono fermi e decisi. Con
un acquario al posto delle scarpe ed i gemelli rinvigoriti dalla fresca
temperatura dell’acqua, riprendo il mio cammino quando devo rismontare dalla
sella a causa di una cresta molto esposta (in fotografia non rende) tortuosa e
resa infida dai numerosi massi taglienti e smossi lungo la traiettoria. Qui incontro
i primi camminatori che procedono agilmente dal Plain Maison. Si chiedono come
mi sia venuto in mente di fare questo percorso con la bicicletta. Dico loro che
di questi tempi tutto è possibile, con un po’ di buona volontà. E del sale in
zucca. Tiro fuori anche il sale in zucca per rendere un poco più vecchia,
capibile e rassicurante la mia spiegazione.
La traversata orizzontale passa nel mezzo dei detriti morenici dell'ex ghiacciaio |
Sulla sinistra, si scorge la traccia della traversata |
Finita
la cresta, è tempo di guadare un secondo torrente. Qui, invero, c’è un’asse di
legno che utilizzo per passare il rigagnolo. Poi rimonto nuovamente in sella ed
affronto l’ultimo pezzo di sentiero sassoso. Sono costretto a fermarmi per dare
la precedenza a due famiglie di milanesi dal peso specifico abbondante – i classici
alpinisti da Ferragosto e da seggiovia – e che commentano con toni udibili da
sottoscritto “Non ci va mica giù di lì, uè!”. Non vado giù di lì? Va bene. In
un battito di ciglia, maltrattando un poco Smilza, affronto la discesa con
baldanzosa e grintosa enfasi, per dimostrare che io giù di lì con la bicicletta
ci vado eccome!
Secondo guado |
"Il sentiero che non posso mica fare con quella bicicletta" |
Per
larghi e ghiaiosi saliscendi giungo fino a Plan Maison, dove faccio l’errore di
non fermarmi e fare una sana pausa. La prossima meta è il Colle superiore delle
Cime Bianche, passando per la funivia Cime Bianche e l’omonimo lago.
Prima,
però, decido di fare una veloce deviazione al Lac du Tramail, dove solitamente
si specchia il vanitoso Cervino. Oggi sono sfortunato, lo stanno svuotando per
rimuovere la sabbia dal fondale.
Riprendo
dunque l’arduo cammino verso il Colle superiore, passando per rampe impossibili
da pedalare che ricalcano le discese invernali con gli sci. In un bagno di
sudore asciugato da un’aria fredda e tagliente arrivo alla funivia Cime
Bianche. Noto con stupore che traguardi abbia raggiunto l’opera dell’uomo: le
cabinovie che arrivano al/dal Plateau Rosa sono mastodontiche. Degli operai stanno
effettuando manutenzione in quanto due giorni prima un fulmine ha seriamente
compromesso una parte a me non nota dell’impianto di risalita. Ivi mi fermo per
uno spuntino forse tardivo ed a recuperare forze quanto basta per affrontare
gli ultimi dislivelli della giornata.
Lac du Tramail ormai prosciugato |
La
salita al Colle superiore è un’agonia sportiva. Avrei forse dovuto fermarmi a
mangiare? Le forze sono giunte agli sgoccioli. Quanto devo essere risultato
comico agli occhi degli altri, per fortuna pochi, esseri umani in zona. Questa
è la prima volta che Andrea supera i 3000mslc in bicicletta. Due fotografie ed
è il momento di ridiscendere alla funivia delle Cime Bianche. Qui il meritato
pranzo, con conseguente cambio magliette ed asciugatura rapida al sole d’alta
quota.
A come Agonia, B come Buttana che fatica, C come Cazzo, e D come Dai cazzo |
Ultimi metri di salita prima del Colle Superiore |
Lago Cime Bianche nello scendere |
Recuperate
le forze, assisto ad imbarazzanti dialoghi tra milanesi downhiller (si dirà
così?) in prossimità della rampa che sancisce lo Start del Bike Park. Gente che
non usa nemmeno le proprie gambe per salire, che discute su quali sospensioni
montare appena tornati a casa perché i feelings
durante la prima discesa non sono state delle migliori. E via milaeuri. Gente
che, mi dà l’impressione dal livello di argomenti trattati, fino al giorno
prima come sport praticavano il sollevamento di polemiche. Scelte, penso. Modi
di vivere diversi dai miei, penso. Va benissimo, il mondo è bello perché vario,
penso. Poi, siccome non sono pratico delle zone, chiedo loro informazioni sul
livello delle varianti di discesa ed invece che rispondermi mi dicono “Ah ma
con quella bici non ci vai mica giù!”. Cos’avranno poi i milanesi contro di me
e la mia bicicletta? Sembra un motivetto comune quel “con quella bicicletta non ci
vai mica giù”. Smilza si offende ed io non di meno da buon permaloso. Dopo aver dato un’occhiata
al primo ripidissimo pezzo di discesa, mi butto giù in picchiata. Tanto ripida
che il solo pensiero di toccare il freno davanti significherebbe arrivare a
Cervinia in un colpo solo, di faccia. Dannato orgoglio, ogni tanto tenta di
fregarmi. Finiti i primi tornanti e raggiunta la prima sella, il sentiero si fa
veramente troppo sia per il mio livello di guida che per Smilza. Con una corta
deviazione mi riporto sull’altrettanto ripida ma facile carrareccia che porta
alle seggiovie di Cervinia. Fotografie al timido Cervino che ormai è
completamente nascosto nel suo cappello con riflesso sul Lac Goillet.
Imponenti impianti di risalita alle Cime Bianche |
Lac Goillet ed il timido Cervino col cappello |
Prendo
e scrivo le cartoline di rito, e ridiscendo tutta la Valtournenche fino a
reimmettermi nella grande Valle dell’Aosta. Ripercorro a ritroso la strada
provinciale fino a Verrés, e continuo a pensare alle fantastiche esperienze
appena vissute, con il Cervino accarezzato e con tanti programmi futuri da
riempire le agende di un reggimento.
In
prossimità dell’abitato di Hone (avrebbe la o con la casetta sopra che non
trovo tra i caratteri ASCII e va bene così!), sono circa le 16 e mi appresto a
cenare. La prima cena, s’intenda. Servono energie per arrivare fino a
Champorcher. Chissà per quale strana congiunzione astrale, le mie gambe non
soffrono più e la salita, seppur molto lunga, la percorro lentamente ma senza
intoppi. La strada presenta numerosi cartelli indicanti costante pericolo di
frane e valanghe per tutta la sua lunghezza. La strada è a tratti molto
panoramica ed esposta, in altri invece costeggia pareti rocciose. Passo per l’abitato
di Pontboset, ammiro i bellissimi boschi che se ne stanno appollaiati sulle
scoscese coste. Producendo una serpentina, la valle arriva al suo termine nella
frazione di Chardonney di Champorcher, dove decido di passare la notte.
Cascatella presso Chardonney |
Ivi,
Olga mi offre un rifugio, un letto in cui recuperare le forze ed una doccia con
cui lavare le fatiche ed il fango accumulati in questo giorno e mezzo di
pedalate. Ivi, io ed Olga iniziamo un’interessantissima conversazione su cosa
significhi abitare in ambienti alpini ed inospitali come quello in cui lei è
nata ed in cui abita da anni. Per la prima volta nella mia vita realizzo cosa
possa significare passare un inverno in montagna.
Mi
lavo, mangio e faccio un giro su e giù per la frazione della frazione di
Chardonney. Mi appoggio sul letto, e con le pagine de “L’uomo duplicato” spalmate sul viso cado
in un sonno profondo.
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