Lo skyline del Bund al sopraggiungere delle tenebre. Chissà il conto della bolletta della luce |
C’era una volta la Cina imperiale. Una manciata di dinastie
fecero grande questa vasta nazione: Song, Yuan, Ming e Qing. Tuttavia, ancor
prima dell’avvento dell’epoca imperiale, la preistoria cinese rappresenta forse
la testimonianza più antica di arte, filosofia, politica. Inventarono una
parola, più un modo di vedere ogni aspetto del mondo, la definirei così, che da
allora si sarebbe presa la briga di influenzare sterminate miriadi di miliardi
di persone tra Cina e l’occidente. Sì, pure l’avanzato e progressista
occidente. Quel concetto di cui parlo è il “Tao”, che significa via, sentiero.
Un concetto di difficile definizione, il Tao. Una forza che scorre in perenne
movimento attraverso ogni singolo atomo dell’Universo. Forse l’universo stesso.
Un inesauribile divenire. Ed ecco che uomini e donne iniziarono a camminare
lungo il Tao dell’Amore, uomini annoiati lungo il Tao della filosofia diedero
vita a correnti di pensiero, uomini abili con mani e pensiero furono i primi a
percorrere il Tao della scienza partorendo la scienza applicata e la medicina,
mentre altri dimostrarono eccellenti doti nello spennellare la china su
pergamene di riso e bambù. Così nacque invece il Tao delle parole ordinate e
melodiose. Ma ritorniamo alla Cina imperiale: ad un certo punto, parlo del 10
Ottobre 1911, le moderne ed organizzate milizie del Kuomintag, sotto
un’influenza taoista e rivoluzionaria di Sun Yat, decisero che la dinastia Qing
non avesse più nulla di valido da offrire. Volevano una Repubblica, quelli lì.
Ed è così che nel 1912 la famiglia reale dovette riempire i propri fagotti da
viaggio ed abbandonare la Città Proibita di Beijing. Nel 1912 nacque la
Repubblica di Cina. Non fecero in tempo a finire i festeggiamenti per la
neonata Repubblica che negli anni ’40 del XX secolo, dopo aver subito
l’invasione giapponese della Seconda guerra mondiale, la Cina attraversò un
altro periodo di profonde e sanguinolente rivolte interne. Mao, che di felino
non ebbe solo il nome, nel 1949 riuscì a sua volta a spedire con raccomandata e
ricevuta di NON-ritorno Chang Kai Shek sull’isola di Taiwan. Nacque così, sotto
il segno del niù – Bue nel nostro linguaggio –
la Repubblica Popolare Cinese. Miao – d’ora in poi lo chiameremo così –
improntò la nascente nazione sul Tao marxista-leninista. Tuttavia, negli anni
’60, il Partito Comunista Cinese subiva le prime radicali trasformazioni
interne. Si stava imborghesendo. A Miao, fervente contadino dal cuore
scarlatto, non andò bene. L’anno del Cavallo 1966 segna l’inizio della grande
rivoluzione culturale proletaria, wén huà dà gé ming. Sicuramente uno dei più
grandi lavaggi del cervello della storia. Così mi piace definire la rivoluzione
culturale. Una rivoluzione che lasciò inebetiti ed affamati centinaia di
milioni di persone, quando non le lasciò senza respiro. Ed è così che migliaia
di anni di sentieri e vie andarono bruciate o poste su pochi polverosi
scaffali, nascosti in buie cantine. Quando le vibrisse del paffutello Miao
cedettero il passo, la RPC iniziò un altro radicale cambiamento. Come ci
insegna il cinema, grazie al moderno Marco Polo americano Forrest Gump, la Cina
iniziò ad aprire le frontiere allo straniero. In capo a qualche anno, il basso
costo della manodopera avrebbe portato la Cina dove ora è: in cima alla
piramide delle potenze economiche mondiali. Povero Miao, mi immagino la sua
faccia se oggi camminasse per le strade di Shanghai e leggesse “American Flat
Chai Latte”, o “Nike outlet”, o peggio ancora “Shanghai limited Company for
International Business”. Un mancamento, un infarto. Ecco cosa succederebbe al
condottiero contadino se vedesse quanti occhi tondi su visi pallidi, occhi
quadrati su visi bruni, quante capigliature color paglia e quanto inchiostro sulla
pelle oggi circolino per le sino-strade.
Shanghai, per la quale l’occidente
ha dovuto coniare un nuovo termine per definirla: megalopoli. Shanghai, un
tripudio di colori ed odori che mantiene viva la tradizione atarassica cinese.
Shanghai, la perla della multiculturalità orientale. Shanghai, dove la
prostituzione non è uno dei principali motivi per cui la città pullula di
stranieri. Shanghai, convivenza tra culture diametralmente opposte. Shanghai,
uno stamburare di ritmi diversi. Shanghai, tecnologia e povertà. Shanghai la
costosa. Shanghai, la terra delle opportunità per tutti. Shanghai, davvero sei
la capitale economica di uno stato comunista? Shanghai, mi iscrivo al partito –
anzi sono già iscritto – ed il sindaco lo decido io senza votazione alcuna. Shanghai,
cittadini di Shanghai: smettetela di procreare come conigli perché la
popolazione mondiale conta un numero troppo elevato di persone per le risorse
che ci siamo lasciati. Shanghai, c’erano un italiano, una rumena, un russo, due
olandesi, una taiwanese, e poi altri due italiani, un americano di origini
serbe ed un messicano naturalizzato americano, un giapponese sotto mentite
spoglie, tanti cinesi, una francese, ancora un paio di cinesi. Shanghai, dove
accanto al gigante negozio della Nike v’è una picciola stireria il cui
proprietario riposa su una sedia pieghevole in mezzo al marciapiede. Shanghai,
centri massaggi seri e meno seri. Shanghai, dove ho visto più cani in un giorno
che in quattro mesi tra Shenzhen e Xian. Shanghai, tra accettazione incondizionata
ed espressione della propria essenza. Shanghai, sul Fiume Giallo. Shanghai,
dovresti rivedere il nome del fiume Giallo perché a me sembra più marron scuro
con sfumature color petrolio. Shanghai, qual è il tuo problema con chi non
vuole mangiare carne né pesce? Shanghai, i guardiani del traffico fischiettano
senza dare una vera direzione alle vibrazioni che liberano da quell’oggettino
metallico. Shanghai, dove tutte le belle donne cinesi si sono riunite non
lasciando traccia di femminilità ed incanto altrove nel paese. Shanghai, giusto
non introdurre reti d’interazione sociali estere ma mettiti il cuore in pace
perché con una VPN chiunque ti può fregare facilmente. Shanghai, non ho mai
visto un quotidiano. Shanghai, ti racconto una barzelletta: c’erano un italiano,
una rumena, un russo, due olandesi, una taiwanese, e poi altri due italiani, un
americano di origini serbe ed un messicano naturalizzato americano, un
giapponese sotto mentite spoglie, tanti cinesi, una francese, ancora un paio di
cinesi, gli amici della francese, il fratello della rumena, un parrucchiere
italiano, una cinese tinta color paglia, un anziano francese che dalle donne
cinesi non ottiene più nulla, una tibetana che non è cinese, tanti altri cinesi
che credono che tibetani, taiwanesi e gli abitanti di Porto Profumato siano
cinesi come loro. Shanghai, mi piacerebbe chiamare per nome tutti i cittadini
ma proprio non mi è possibile farlo. Shanghai, deve essere assai dura d’estate,
con 40°C, sopravvivere senza montagne, laghi, mari o pozze dove tuffarsi per
trovare riparo dall’asfissiante calura. Shanghai, che mi ispiri improbabili
rime. Shanghai, gloriosi coloro che provarono a risalire le tre gole dello
Yangtze. Shanghai e la cannoniera Carlotto, cimelio di un’Italia che mai
diventò potenza coloniale. Shanghai,
Marco Polo e la via della seta. Shanghai, che mai riuscisti a diventare
capitale: prima Nanchino, ora Pechino e domani chissà. Shanghai, che ci fanno
lì Galeazzo Ciano ed Edda Mussolini?
Shanghai, il successo della popstar Emma Re: “Nemo propheta in patria”. Shanghai, che significhi “sul mare” ma che prima di riuscire a
vederlo si fa prima a versare il proprio stipendio direttamente al tassista di
turno.
Shanghai, lupo che osserva ti saluta.